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Corte dei Conti Puglia, Sez. Contr., deliberazione n. 200 del 13 dicembre 2016 – Compensi professionali sono retribuzione e il limite 2013 va inteso nel senso delle somme che sarebbero comunque spettate, indipendentemente dall’importo accantonato in bilancio

Fra vari punti toccati (come ad esempio la natura retributiva del compenso professionale, l’esclusione dal “tetto”, la corresponsione solo a personale togato, ecc), sullo stanziamento del 2013, “ritiene il Collegio che, in tutte le ipotesi in cui non sia individuabile un effettivo stanziamento dell’esercizio 2013 per compensi professionali in caso di compensazione integrale delle spese, l’importo da assumere come base di riferimento per l’applicazione del limite imposto dal comma 6 dell’art. 9 del D. L. n. 90/2014 possa individuarsi in un importo pari alla somma complessiva che l’Ente avrebbe dovuto correttamente impegnare e liquidare nel corso dell’esercizio 2013 o con riferimento ad altra modalità ritenuta idonea dall’Ente tenendo comunque conto che la contrattazione decentrata destinata a regolare la distribuzione dell’incentivo deve adottare obbligatoriamente criteri oggettivamente misurabili basati sul rendimento individuale (Sezione regionale di controllo per la Puglia, deliberazione n. 49/PAR/2015 del 22/01/2015).
Appare, infatti, irragionevole che, in assenza di somme stanziate nell’esercizio 2013 in via specifica per i predetti compensi, agli avvocati interni sia precluso di fruire di qualsiasi incentivo anche negli esercizi successivi (Sezione regionale di controllo per la Liguria, deliberazione n. 82/2015)”.

Spettano solo agli avvocati che svolgono attività di patrocinio e non al restante personale di qualsiasi mansione: “si tratterebbe, quindi, non di incentivi costituenti una voce del trattamento accessorio ma di compensi finalizzati a remunerare l’attività professionale specifica dell’avvocato e, quindi, non ripartibili in sede di contrattazione decentrata a favore della generalità dei dipendenti (Sezione regionale di controllo per la Liguria, deliberazione n. 52/2016, Sezione regionale di controllo per la Toscana, deliberazione n. 259/2014/PAR, Sezione regionale di controllo per la Puglia, deliberazione n. 127/PAR/2014, Sezione controllo Friuli Venezia Giulia, deliberazione n. 12/2015/PAR)”.

Con riferimento, invece, al “tetto” di cui al DL 78/2010, relativo agli “incentivi” del personale, esclusa la natura giuridica di “incentivo” del compenso professionale, bensì “retributiva”, il Collegio ha così ribadito (in un solco oramai definitivo): “Si tratterebbe, quindi, non di incentivi costituenti una voce del trattamento accessorio ma di compensi finalizzati a remunerare l’attività professionale specifica dell’avvocato e, quindi, non ripartibili in sede di contrattazione decentrata a favore della generalità dei dipendenti (Sezione regionale di controllo per la Liguria, deliberazione n. 52/2016, Sezione regionale di controllo per la Toscana, deliberazione n. 259/2014/PAR, Sezione regionale di controllo per la Puglia, deliberazione n. 127/PAR/2014, Sezione controllo Friuli Venezia Giulia, deliberazione n. 12/2015/PAR). Già nella vigenza della norma dettata dall’art. 9, comma 2 bis, del D. L. n. 78/2010, le Sezioni riunite in sede di controllo avevano rilevato che solo le risorse destinate a remunerare prestazioni professionali dell’avvocatura interna devono ritenersi escluse dall’ambito applicativo dell’art. 9, comma 2 bis, del D. L. n. 78/2010. Ciò in quanto si tratta di risorse “destinate a remunerare prestazioni professionali tipiche di soggetti individuati o individuabili e che peraltro potrebbero essere acquisite attraverso il ricorso all’esterno dell’amministrazione pubblica con possibili costi aggiuntivi per il bilancio dei singoli enti”. Pertanto, ad avviso di questa Sezione, per i compensi professionali dei legali interni non possono trovare applicazione i limiti previsti per la retribuzione accessoria del personale dipendente, oggi trasfusi nell’art. 1, comma 236, della legge 108/2015″.

Diritto e Pratica Amministrativa – Il Sole 24 Ore n. 3/2012

Incarichi legali esterni solo in assenza di una struttura interna competente. di Marcella Gargano. “Per quanto concerne poi, in particolare, le consulenze legali e l’affidamento di incarichi ad avvocati del libero foro, giova precisare, in conformità ai principi generali di cui sopra, che, se l’ente ha un proprio ufficio interno dell’Avvocatura, non è consentito demandare l’attività consulenziale o quella defensionale e procuratoria all’esterno”.

Ricorso in appello Sezione Lavoro

La Provincia ha proposto appello contro la sentenza che ha dichiarato illegittima la delibera con cui è stata attribuita al D.G. la responsabilità del Servizio legale.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE LAVORO Sentenza 6 febbraio – 9 maggio 2008, n. 11601

Dequalificazione, spostamento del dipendente, da ufficio legale a pratiche interne

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Sentenza 6 febbraio – 9 maggio 2008, n. 11601

(Presidente Mattone – Relatore Di Nubila)

Svolgimento del processo

1. L.C. conveniva dinanzi al Tribunale di Roma l’Enel spa, l’Enel Distribuzione spa e P.V., esponendo di essere stato dipendente dell’Enel fino dal 1.1.966, inizialmente come impiegato e quindi, dal 1978, come quadro, addetto al contenzioso ed alla consulenza legale. Licenziato il 27.4.2001 per superamento del periodo di conservazione del posto per malattia, egli deduceva l’illegittimità di siffatto recesso, essendo stata la malattia causata dal comportamento del datore di lavoro; reclamava il risarcimento del danno da trasferimento illegittimo – da **** – avvenuto in data 1.8.1995, risarcimento del danno biologico derivato dalle continue vessazioni cui era stato sottoposto, risarcimento del danno da demansionamento e dequalificazione, del danno esistenziale, danno all’immagine personale e professionale; risarcimento del danno morale o non patrimoniale per le ipotesi di reato ravvisabili nelle suddette vicende e per le molestie morali, gli abusi di ufficio subiti ed i comportamenti illeciti deliberatamente rivolti contro di lui; la restituzione di una somma indebitamente trattenuta sulla retribuzione di ottobre 1996; il risarcimento del danno per i trattamenti terapeutici, i ricoveri ed altre spese mediche. Il tutto, con solidarietà passiva a carico dei tre soggetti convenuti. 2. Previa costituzione ed opposizione dei convenuti, la domanda attrice veniva accolta in misura parziale dal Tribunale, nei confronti delle società, limitatamente cioè al danno da demansionamento dal marzo 1997, nonché al rimborso della somma di Euro 809,24 per l’indebita trattenuta sulla retribuzione di ottobre 1996. Per il resto la domanda attrice veniva respinta. Proponeva appello l’attore insistendo in tutte le domande formulate. Si costituivano le parti convenute; le società proponevano l’appello incidentale sul risarcimento del danno da demansionamento. 3. La Corte di Appello di Roma accoglieva l’appello incidentale e respingeva l’appello principale. Questa, in sintesi, la motivazione della sentenza di appello: – non sussiste preclusione da giudicato in ordine alla domanda risarcitoria; – nel merito, non è provato il danno da trasferimento illegittimo, tenuto anche conto del breve periodo – 20 giorni – in cui il provvedimento veniva posto in esecuzione; – non sussiste dequalificazione professionale: vero è che in precedenza al L. venivano affidati incarichi defensionali “esterni” e che successivamente tali incarichi vennero attribuiti in misura ridotta, per essere sostituiti da lavoro di “difesa mista” (ossia in associazione con legale esterno) e attività interna; ma ciò fu dovuto anche alla revisione del modello organizzativo dell’area compartimentale di **** in connessione con la mutata natura giuridica dell’Enel; – si nota incidentalmente che il 18.5.1995 il L. aveva chiesto giudizialmente il riconoscimento della qualifica di dirigente; – non sussiste un diritto dell’attore, azionabile a sensi dell’art. 2103 Codice Civile, al conferimento di incarichi di “difesa esterna”, mentre non sono ravvisabili profili di demansionamento nell’attività dell’addetto all’ufficio legale “interno”; la scelta se impiegare legali esterni od interni appartiene alla discrezionalità dell’imprenditore; – non vi è prova del mobbing, non risultando anzitutto un intento comune dolosamente preordinato a ledere la dignità del dipendente; – in ogni caso, non risulta una illegittimità di singoli atti caratterizzati da una successione e da una finalità, tali da intimorire o ingiustamente avvilire il lavoratore; non risulta una volontà persecutoria o vessatoria, rimanendo i comportamenti lamentati dal L. indice certamente di un “ambiente di lavoro non disteso, con rapporti certo tesi e difficili”, ma non con intento vessatorio; – non è estranea alla vicenda la prolungata assenza dell’attore dal posto di lavoro per malattia dal 1998. 4. Ha proposto ricorso per Cassazione L.C., deducendo dieci motivi illustrati da memoria integrativa. Resistono con controricorso le tre parti convenute.

Motivi della decisione

5. La sentenza di appello è stata depositata in cancelleria il 12.3.2007. Trova quindi applicazione l’art. 366 bis Codice di Procedura Civile, il quale prevede che ogni motivo di ricorso debba contenere (ovvero si debba concludere con) una richiesta di affermazione del principio di diritto. Ove sia denunciato un vizio di motivazione, il motivo deve contenere la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione. Il tutto a pena di inammissibilità. 6. Col primo motivo del ricorso, il ricorrente deduce omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa punti decisivi della controversia, ex art. 360 n. 5 c.p.c., per quanto attiene al danno subito in conseguenza del trasferimento illegittimo ed in pendenza del relativo giudizio, fino al licenziamento. 7. Con il secondo motivo del ricorso, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione, a sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., degli artt. 115, 116 Codice di Procedura Civile, 1218-1223, 1225, 1226, 2043, 2697 Codice Civile, sotto il profilo della mancata applicazione delle presunzioni desumibili in ordine alla quantificazione e prova dei predetti danni. 8. Il quesito di diritto conseguente è nel senso se sia giustificata da parte del danneggiato e quindi risarcibile in via equitativa, l’assunzione di oneri e spese necessitati per fatto dell’inadempiente, anche al fine di ovviare alla situazione dannosa per l’unità familiare e “foriera di danni ulteriori e irreparabili in difetto delle determinazioni assunte per necessità evidente causate dalla dichiarata volontà dell’Enel di inadempienza, preordinata alla lesione del ricorrente (abuso di ufficio) definitivamente accertata come ritorsiva ex Cass. Lavoro 5087 del 2003”. 9. Detti motivi sono inammissibili. Il principio di diritto muove dal presupposto che il fatto illecito del datore di lavoro (trasferimento) sia conclamato e afferma la risarcibilità del danno conseguente. Ma nella specie il giudice di merito accerta che il trasferimento, pur dichiarato illegittimo, non ha cagionato i danni allegati dall’attore, sia per il breve lasso di tempo in cui fu attuato, sia in difetto di prova dei danni stessi. Trattasi di motivazione in fatto, a proposito della quale il ricorrente contrappone una diversa ricostruzione, senza evidenziare una inidoneità della motivazione a giustificare la decisione. L’illustrazione del motivo anticipa le argomentazioni che sorreggono i motivi seguenti, essendo prevalentemente rivolta ad evidenziare il pregresso demansionamento. 10. Col terzo motivo del ricorso, il ricorrente deduce omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa punti decisivi della controversia, ex art. 360 n. 5 c.p.c.. 11. Col quarto motivo del ricorso, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione, a sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., degli artt. 2, 4, 41 Cost., 1218, 2103, 2697, 2709, 2712, 2735 Codice Civile, 115 e 116 Codice di Procedura Civile. Il quesito di diritto è “se sia conforme alle norme ed ai principi di cui sopra non assegnare incarichi professionali e per di più deprivare un avvocato iscritto nell’elenco speciale annesso all’albo, dei mandati defensionali a suo tempo conferiti, in occasione di un trasferimento ritorsivo” (segue l’indicazione dell’assegnazione di un solo pseudo-incarico) e se costituisca o meno demansionamento assegnare ad un avvocato cassazionista, sottraendogli i mandati già conferiti, in sostituzione di procuratore legale di inferiore inquadramento (al 50% e senza funzioni professionali); riducendo il titolare della suddetta qualifica a mere funzioni impiegatizie di passacarte. E se ciò comporti equivalenza di contenuto professionale per le nuove mansioni e tuteli il diritto costituzionale all’estrinsecazione della personalità del lavoratore. Ulteriore quesito di diritto è posto nel senso se la “mancata assegnazione, aggravata dalla sottrazione in specie dei mandati professionali al legale interno (rilevante in sede penale e titolo di risarcimento al legale interno ivi costituitosi parte civile) dia diritto al risarcimento del danno (per la depauperazione professionale intervenuta, per il lungo periodo intercorso e per le pesanti modalità afflittive) sino al ripristino della situazione anteatta, e pari al 100% della retribuzione”. 12. Ulteriore quesito di diritto accompagnato al terzo e quarto motivo è se sia legittima la motivazione della sentenza impugnata, fondata su mere deduzioni di controparte, per travisamento del quadro probatorio presente in atti ed obliterazione assoluta delle risultanze confessorie, testimoniali e documentali prodotte dal ricorrente in ordine al demansionamento, anche in violazione dell’art. 1218 Codice Civile. 13. Iniziando dall’ultimo quesito, appare evidente che in esso non viene indicato il punto della sentenza in cui la motivazione manca, è contraddittoria o non è sufficiente a supportare la sentenza, ma viene contrapposta alla ricostruzione della Corte di Appello una ricostruzione effettuata dal ricorrente, basata su di una diversa valutazione della prova. Tanto è sufficiente per la declaratoria di inammissibilità. Quanto ai principi di diritto, va rilevato come essi presuppongano una ricostruzione del “fatto” diversa da quella effettuata dalla Corte di Appello ed una diversa valutazione delle prove. Infatti la Corte di Appello ha affermato che, nell’ambito di una qualifica professionale di quadro addetto all’ufficio legale, non costituisce demansionamento ridurre le difese esterne ed attribuire al quadro difese miste o compiti di consulenza interna, non venendo in considerazione una supposta diminuzione di contenuto professionale delle mansioni. L’accertamento del contenuto delle mansioni costituisce una valutazione in fatto. L’apprezzamento del livello professionale è stato condotto dalla Corte di Appello con motivazione adeguata, onde essa sfugge a sindacato in sede di legittimità. I quesiti “di diritto” proposti costituiscono ricostruzioni in fatto e non in diritto. Soltanto dopo avere accertato il minore contenuto professionale delle mansioni assegnate per ultime rispetto alle precedenti la Corte di Appello avrebbe potuto statuire in diritto che spettava il risarcimento del danno. 14. Col quinto motivo, si deduce carenza di motivazione per travisamento del quadro probatorio. 15. Col sesto motivo del ricorso, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione, a sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., degli artt. 115, 116 Codice di Procedura Civile, 1218, 1228, 2709, 2712, 2735, 2909 Codice Civile per omessa valutazione delle prove, violazione delle regole in tema di onere della prova, confessione stragiudiziale e giudicato. Il relativo quesito di diritto è “se sia legittimo trascurare le risultanze probatorie in atti di cui talune (quali prove legali) neppure valutabili dal giudice e fondare la decisione su mere deduzioni di controparte, stravolgendo il riparto degli oneri probatori stabiliti a carico dell’inadempiente, basandola su atti di parte irrilevanti (report informatici e deduzioni) ritenuti poziori sulle prove ritualmente raccolte. 16. Dalla lettura del motivo di diritto appare evidente che non vi è alcuna censura di mancanza o di inadeguatezza della motivazione; il principio di diritto come enunciato dimostra che il ricorrente contrappone all’accertamento del “fatto” compiuto dalla Corte di Appello un proprio accertamento, dal quale fa discendere le conseguenze in diritto nel senso della declaratoria conseguente di illegittimità del comportamento del giudice. I due motivi vanno pertanto dichiarati inammissibili. 17. Il settimo motivo denuncia violazione e falsa applicazione, a sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c.., degli artt. 2, 32, 41 Cost., 1175, 1176, 2087 Codice Civile, sotto il profilo della violazione del diritto alla salute e dei principi di buona fede e correttezza. Il quesito di diritto relativo è se le provate molestie morali e materiali costituiscano o meno violazione degli anzidetti principi. 18. Il motivo muove dal presupposto che sia stato accertato il “mobbing” , al che consegue la violazione del dovere di protezione del lavoratore e dei principi di correttezza e buona fede nell’attuazione del rapporto di lavoro. Ma il giudice di merito accerta che non vi è stato mobbing, sia per carenza di un intento persecutorio concordato e predeterminato, sia per la mancanza oggettiva di una condotta sistematica volta ad infliggere al lavoratore frustrazione e sofferenza. Il tutto si risolve quindi nella ricostruzione del fatto, laddove la Corte di Appello ha accertato che nessun “mobbing” è stato esercitato nei confronti del L., con motivazione esauriente, immune da vizi logici o contraddizioni, talché essa si sottrae ad ogni censura in sede di legittimità. Il motivo va pertanto rigettato. 19. Con l’ottavo motivo di ricorso, il ricorrente deduce vizio di motivazione per avere la Corte di Appello ritenuto, sulla base di certificati medici risalenti agli anni 1968-1973, che le malattie da cui egli stesso è affetto risalgano nel tempo ad epoca precedente a quella per cui è causa. 20. Col nono motivo, viene denunciata violazione e falsa applicazione, a sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., degli artt. 32, 41 Cost., 2087 Codice Civile, 11 del Ccnl: non sono computabili nel periodo di comporto le malattie contratte a causa di servizio in funzione delle vessazioni inferte. Il quesito di diritto è se sia legittimo trascurare la palese connessione tra mobbing e patologie, collegando le gravi infermità denunciate a certificati medici risalenti a trenta anni addietro, relativi a prognosi insignificanti e basandosi su massime di esperienza avulse dalla realtà. 21. Col decimo motivo, viene denunciata violazione degli artt. 115, 116 e 421 Codice di Procedura Civile, per denegata ammissione di mezzi istruttori e omesso esercizio dei poteri officiosi. Il quesito è se sia legittimo il mancato esercizio dei poteri officiosi del giudice quanto alla consulenza tecnica di ufficio, alle esibizioni ed alla riaudizione del teste B.. 22. Anche questi ultimi motivi risultano infondati. “Sub specie” di una censura in diritto, viene contestata la ricostruzione del fatto (l’Enel ha sempre sostenuto che fino dal conseguimento della laurea, ottenuta durante il rapporto di lavoro, l’attore iniziava a soffrire di depressione) e del nesso di causalità. Quanto all’esercizio dei poteri istruttori del giudice, l’ammissione delle prove, se non precluse, costituisce un potere-dovere del giudice, da esercitarsi nei limiti della rilevanza ai fini del decidere e della sufficienza delle prove raccolte. L’esercizio dei poteri officiosi costituisce una facoltà discrezionale del giudice di merito, il quale la esercita nel caso in cui la prova indicata sia indispensabile ai fini del decidere. 23. Il ricorso, per i suesposti motivi, deve essere rigettato. Giusti motivi, in relazione all’opinabilità iniziale della materia del contendere, alla complessità in fatto degli accertamenti richiesti dalla controversia ed al comportamento processuale delle parti, consigliano la compensazione integrale delle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di legittimità.

Corte dei Conti, Basilicata, deliberazione n. 2 del 22 gennaio 2010

La Corte si esprime sulla formulazione del nuovo Regolamento sui compensi dell’avvocatura interna.

Quanto agli oneri riflessi (contributivi e assicurativi), l’articolato in esame prevedeva che fossero assunti a carico del bilancio comunale, disposizione censurata dalla Corte ai sensi della sentenza della Consulta, n. 33 del 2009 (in rassegna).